mercoledì 28 novembre 2007

Un anno fa... è cambiato qualcosa???

Questo articolo, pubblicato dal Manifesto del 4 novembre 2006, è una sorta di "cult" fra i precari del mondo dei media. L'ho trovato affisso anche accanto alla saletta T3 di via Teulada 66, quella dove si monta Report, il programma che ha dedicato una bella puntata agli "appaltati" della Sanità, ma che probabilmente non si occuperà mai dei problemi di casa RAI, dove i precari abbondano (ma anche fuori non è che le cose vadano meglio).
Programmisti-registi a tempo determinato fino alla pensione, operatori, montatori, free lance «a giornata». La tv plasma l'immaginario, la materia è il lavoro precario.
E la Rai è quasi peggio di Mediaset

«Ma come? La produzione non vi ha dato gli stivali antiserpente?», chiese meravigliato il medico al gruppo di teleoperatori appena scesi dal furgone nella Snake Valley, Arizona, set di The Wild West, il reality show più sfigato della stagione. Soluzione all'insegna del genio italico: tanti bei pezzi di nastro adesivo per fissare l'orlo dei pantaloni alle scarpe da ginnastica. Lo sospettavamo: le vere avventure dei reality show sono quelle di chi lavora per mostrare le finte e demenziali prodezze dei concorrenti. Per 4 mila dollari al mese si può fare, una cifra da leccarsi i baffi in un settore dove il lavoro è per statuto a tempo, intermittente, precario.Un capannone di San Giusto Canavese è il teatro di posa di Cento vetrine, soap opera in onda su Canale 5 da ben sei anni. Duecento persone timbrano il cartellino, tutti contratti a tempo determinato, rinnovati ogni sei mesi, un decoratore di scenografia guadagna 1600 euro al mese. Ma i mesi pieni, senza fermi di produzione, sono rari. A Palermo per quella modica cifra i ragazzini ammazzano su commissione. Dunque, da mesi la vera notizia in città e nel circondario è Agrodolce, nuova fiction della Rai, sicilianitudine senza retorica e fuori dagli stereotipi, garantisce Gianni Minoli, direttore di Rai Educational. 230 puntate di 30 minuti, di cui 6 girati in esterni - «in Sicilia c'è una luce che a Hollywood se la sognano» (sempre Minoli dixit)- il resto negli studios che l'architetto Massimiliano Fuksas sta ricavando da una fabbrica dismessa di Termini Imerese. C'è il cofinanziamento della Regione Sicilia e l'obbligo ad assumere solo siciliani doc, dagli attori protagonisti all'ultimo manovale. Assunzioni a tempo determinato, s'intende. In Sicilia si sgomita per molto meno. Racconta Angela Biondi, segretaria della Slc-Cgil di Palermo: «Quando si è sparsa la notizia, siamo stati invasi da giovani che volevano mettersi in lista per Agrodolce. Hanno riempito persino il terrazzo. Continuiamo a ricevere telefonate: io so fare la parrucchiera, io la truccatrice, io pure la comparsa farei». Roma, quartiere Palatino, auto posteggiate nei pressi della redazione del Tg5. All'interno, giovani che ci dormono anche la notte. Tengono la telecamera appoggiata sulle ginocchia. Aspettano la «chiamata», pronti a schizzare se c'è da uscire con il redattore per «fare il servizio». Sarebbero free lance, «ma ci chiamano così solo per indorare la pillola». In effetti, non c'è molta differenza con la piazza dove il caporale «chiama» gli edili o i raccoglitori di pomodori. Rai, Corso Sempione, Milano. Piccola storia di un precario che prima stava ancora peggio. Fase uno: cooperativa di facchinaggio, «smagnetizzavo cassette per la Rai», in nero. Fase due: lavoro in regola, in una ditta esterna che fa cablaggio elettronico per la Rai. Fase tre: diploma di elettrotecnico-impiantista, assunto a tempo determinato dalla Rai come «specializzato», 1200 euro al mese «facendo i notturni». Riassumendo: «Ho sempre lavorato per la Rai, ma sono stato assunto td (abbreviazione del lessico Rai, ndr) solo dopo 4 anni. Sono relativamente contento. La mia impressione è che in Rai metà della gente sia td».Metà è un'esagerazione, se si considerano tutti i 12 mila dipendenti della Rai. Non lo è, se ci riferisce ai programmisti-registi. Pare siano 1200, forse 2000, quelli a tempo determinato. Sono in gran parte donne, parecchie hanno superato la quarantina, e fanno di tutto. «Dal portare il caffè al capo al realizzare vere e proprie inchieste». Durata massima del contratto, otto mesi e mezzo. Via uno sotto l'altro, fino all'età della pensione. Anche qui torna la solita cifra: 900 euro al mese che diventano 1200 grazie agli straordinari. «Si resiste solo perché fare la televisione è meglio che guardarla», dice una. E un'altra: «E' pur sempre un lavoro creativo». Cosa manca? «Più che la sicurezza, manca la valutazione del lavoro che fai. Entri al quarto livello e lì resti a vita. Non va bene il lavoro che faccio? Preferirei mi cacciassero, invece mi tengono qui nella melma». Per uscire dalla melma ci sono solo due modi. O una bella causa di lavoro, che la Rai perde inesorabilmente (200 le cause pendenti, 40 i milioni di euro che l'azienda stanzia annualmente per le spese legali). O la lotteria dei «bacini di reperimento». Dentro ci stanno i td con più anzianità di servizio che l'azienda, con un accordo sindacale, si è impegnata a trasformare in dipendenti fissi. Finora mamma Rai con una mano ne ha «assorbiti» un centinaio, mentre con l'altra ha riaperto il rubinetto della precarietà con raffiche di cocopro e «collaboratori» vari. Trattati peggio dei td, stanno scoprendo pure loro la strada del tribunale. Endemol, Magnolia, Grundy, Fascino sono case di produzione che realizzano e vendono format chiavi in mano alle emittenti televisive. Prendiamo ad esempio, ma il discorso vale per tutte, Fascino che, essendo di proprietà della coppia Costanzo-De Filippi, ci evita di ricordare cosa produce. Come lo produce? Moltiplicando a cascata le esternalizzazioni e, quindi, la precarietà. Fascino, in sostanza, affitta a tempo determinato impianti, tecnologie, automezzi, personale. Forniti dai «service» (Sbp, Palomar, Etabeta, Frame, Video3, Euroscena sono quelli che vanno per la maggiore) che, a loro volta, hanno una manciata di dipendenti fissi e un'agenda di nomi e numeri di telefono alta una spanna. Il contratto tra Fascino e service dura quanto il ciclo del format (in genere 9 mesi). Ma il personale assoldato dai service è costretto ad accettare contratti di pochi giorni, firmati molto dopo l'avvenuta prestazione, sempre rinnovati. Un cameraman di un service: «Alla fine del mese mi ritrovo tante buste e pochi soldi. 100 euro per ogni giorno lavorato. Sono quattro anni che non posso ammalarmi. Sono telecineoperatore, nei fogli che mi fanno firmare risulto impiegato tecnico di terzo livello. Fanno figurare che lavoriamo come troupe d'emergenza, chiamata a dar manforte a quella fissa, che saremmo sempre noi. Siamo i braccianti del terzo millennio». Questa carrellata sulla precariatà dell'indotto televisivo non rivela segreti, non scopre altarini. Eppure, nessuno degli otto lavoratori intervistati ha accettato di metterci il suo nome. E' questa la vera notizia. La precarietà cancella i diritti, persino quello ad avere un'identità. Enrico Cremagnani è la classica eccezione che conferma la regola. Guarda caso, è un precario di lusso e per scelta. Milanese, trent'anni, partita Iva, gira, monta e confeziona servizi per All Music, televisione tematica del gruppo L'Espresso. Possiede i suoi mezzi di produzione (Marx evergreen!), videocamera e computer, «basta applicargli un programmino e si possono montare suoni e immagini». Ha una scrivania in redazione, preferisce lavorare «da casa». Guadagna 2.750 euro netti al mese, può permettersene due di ferie. «Prendo più dei miei capi e la ragione è semplice. Faccio risparmiare a All Music un sacco di soldi». Ore di lavoro? «Variabili, più una cosa mi piace più le dedico tempo». Insomma, un pascià. «Sì, sono un privilegiato, devo vergognarmi?».Il numero dei privilegiati, già esiguo, è destinato ad assottigliarsi. Il mercato televisivo è saturo, dice Nicola Zappa, delegato della Cub a Telelombardia, assunto a tempo indeterminato come mixer video-regista dopo anni da free lance. «Negli anni ottanta un operatore con una giornata di riprese alle sfilate di moda si faceva le sue belle 700 mila lire. Ora rimedia 200 euro». Senza i precari, pagati 50 euro a giornata, metà del palinsesto di Telelombardia salterebbe. Purtroppo, chi è assunto «guarda al suo, se ne fotte dei precari». Alla Rai di Milano, racconta Giusi Corbelli, delegata della Slc-Cgil, «non abbiamo più costumiste interne. Solo in paio di sarte, giusto per tirar su un orlo o stringere con gli spilli un vestito». Anche Giusi torna, a rovescio, sul diritto al nome. «Solo chi è assunto fisso può permettersi il lusso di togliere il suo nome dai titoli di coda da trasmissioni imbarazzanti e offensive». Quelle tutte tette e culi? «Ecco, proprio quelle lì». Precarizza di più la Rai o Mediaset? «Se si guarda ai dipendenti interni bisogna riconoscere che, in proporzione ai suoi 3.500 addetti, ci sono meno precari a Mediaset», risponde Marco Del Cimmuto, segretario nazionale della Slc. E non è tutto: in Rai sta «drammaticamente» crescendo la quota di produzione appaltata all'esterno che moltiplica e disloca altrove la precarietà.


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