giovedì 29 novembre 2007

Via Bergamini...

Non è l'indirizzo della Società Autostrade, ma la sospensione di Deborah (con la h), prima assistente di Silvio Berlusconi e poi direttore del marketing strategico RAI, coinvolta nello scandalo delle intercettazioni.
La Lega ha polemicamente invitato a sospendere tutti. D'accordo, cominciamo con Marano?

Magari fosse tutto così facile...

Sarà, questo signor Ichino, uno di quelli che "in fin dei conti fare il giornalista è sempre meglio che lavorare"...?


LA FATICA DEL LAVORARE BENE
Il merito e il salario
di Pietro Ichino

Il presidente di Confindustria, Montezemolo, ha rilanciato con forza, in questi giorni, la parola d’ordine della meritocrazia; e il segretario della Cisl, Bonanni, gli ha risposto positivamente: «Il nostro obiettivo è lavorare meglio e di più, per produrre e guadagnare di più». Su questo tema, invece, la Cgil resta abbottonata. Questa sua riluttanza non risponde a ragioni tattiche contingenti: ha radici profonde nella cultura della sinistra. E niente affatto disprezzabili.
A sinistra l’idea dominante è che la produttività non sia un attributo del lavoratore, bensì dell’organizzazione aziendale in cui egli è inserito. «Prendi un ingegnere bravissimo e mettilo a spaccare le pietre: otterrai probabilmente un lavoratore molto meno produttivo di uno spaccapietre analfabeta». Se, poi, nessuno domanda pietre, entrambi stanno fermi e la produttività di entrambi è zero. Nel dibattito di tutto lo scorso anno sui nullafacenti del settore pubblico, questo è stato immancabilmente il concetto che veniva contrapposto all’idea di commisurare le retribuzioni anche ai meriti individuali: «Il risultato penosamente basso di molti uffici — si è detto da sinistra — ma anche il difetto di impegno di molti impiegati dipendono dal pessimo livello di organizzazione e strumentazione ».
C’è del vero in questo argomento; ma a sinistra si cade spesso nell’errore di fermarsi qui. È l’errore che il grande Jacovitti rappresentò con l’indimenticabile vignetta dove una mucca dall’aria torpida e pigra diceva: «Sono una mucca per colpa della società». La realtà è che la produttività del lavoro dipende da entrambe le variabili: sia dall’organizzazione, e talvolta da circostanze esterne incontrollabili, sia dalla competenza e dall’impegno del singolo addetto. E conta anche il suo impegno nel cercare l’azienda dove il proprio lavoro può essere meglio valorizzato.
Commisurare interamente la retribuzione al risultato significa, certo, scaricare sul lavoratore tutto il rischio di un esito negativo che può non dipendere da suo demerito. Ma garantire una retribuzione del tutto stabile e indifferente al risultato significa cadere nell’eccesso opposto: così viene meno l’incentivo alla fatica del far bene il proprio lavoro e del muoversi alla ricerca del lavoro più utile, per gli altri e per se stessi. Questa stabilità e indifferenza della retribuzione è la regola oggi di fatto imperante in tutto il settore pubblico, ma troppo largamente applicata anche in quello privato, per effetto di contratti collettivi che lasciano uno spazio del tutto insufficiente al premio legato al risultato.
E questo è uno dei motivi —insieme, certo, a tanti altri difetti strutturali e imprenditoriali — della bassa produttività media del lavoro nel nostro Paese. Per uno stipendio magari basso, che però matura qualsiasi cosa accada, ci sono sempre i lavoratori che si impegnano a fondo, se non altro per rispetto verso se stessi, e si ribellano alle situazioni di improduttività; ma ce ne sono sempre anche altri che se la prendono comoda, fino al limite del non far nulla. Un’iniezione di meritocrazia nei contratti collettivi e individuali fa certamente bene anche a questi ultimi.
Non me ne voglia l'autore dell'articolo. Vorrei poter dire che nel suo scritto non c'è niente con la quale non ci si possa trovare d'accordo, anche perché elenca cose ovvie e indiscutibili. Devo però sottolineare che tutto questo sarebbe perfetto se solo ci trovassimo in un paese normale. Quanti, specialmente tra i giovani, possono dire di aver sentito parlare di contratti collettivi o individuali? Il lavoro, sempre più precario e sempre peggio pagato, spesso non vale la pena di impegnarsi per far crescere la produttività, del singolo o dell'intero comparto. Probabilmente varrebbe la pena (non ne trovo traccia nel pezzo soprariportato) di andare a cercare quanti, a livello dirigenziale, essendo ormai "arrivati", non si preoccupano più di tanto dei risultati. Anche perché, in questo sciagurato paese, basta vedere come sono ridotte aziende importanti come la Rai, Alitalia, Trenitalia e via dicendo per rendersi conto che spesso la paga dei manager è inversamente proporzionale ai risultati ottenuti. Quindi, perché prendersela esclusivamente coi lavoratori? Conta l'impegno di trovare un'azienda nella quale "il proprio lavoro può essere meglio valorizzato", ma conta anche la capacità di valorizzare il lavoro di chi si dà veramente da fare. Potremmo dire che quel che scrivo io è speculare a quanto ha già affermato Ichino, ma in realtà esiste una differenza di fondo. La maggioranza dei lavoratori, di questo passo, sarà organizzata in situazioni atipiche: cooperative, società o anche associazioni di vario tipo che prendono in appalto il lavoro per conto di aziende pubbliche, privatizzate, private. Contratti a progetto, a termine, lavoro nero o grigio... Sia che si tratti dell'Ente Locale, dell'azienda pubblica o della multinazionale, la parola d'ordine sembra "spendere sempre meno". La voglia di fare e la capacità del singolo lavoratore, per questa gente, vale zero. Non si tratta, in molti casi, di voler prendersela comoda. Certi datori di lavoro, col loro atteggiamento, fanno semplicemente cadere le braccia. Arriveranno, un giorno, a capire che stanno facendo come quello che, per far dispetto alla moglie, se lo tagliò?

mercoledì 28 novembre 2007

Un anno fa... è cambiato qualcosa???

Questo articolo, pubblicato dal Manifesto del 4 novembre 2006, è una sorta di "cult" fra i precari del mondo dei media. L'ho trovato affisso anche accanto alla saletta T3 di via Teulada 66, quella dove si monta Report, il programma che ha dedicato una bella puntata agli "appaltati" della Sanità, ma che probabilmente non si occuperà mai dei problemi di casa RAI, dove i precari abbondano (ma anche fuori non è che le cose vadano meglio).
Programmisti-registi a tempo determinato fino alla pensione, operatori, montatori, free lance «a giornata». La tv plasma l'immaginario, la materia è il lavoro precario.
E la Rai è quasi peggio di Mediaset

«Ma come? La produzione non vi ha dato gli stivali antiserpente?», chiese meravigliato il medico al gruppo di teleoperatori appena scesi dal furgone nella Snake Valley, Arizona, set di The Wild West, il reality show più sfigato della stagione. Soluzione all'insegna del genio italico: tanti bei pezzi di nastro adesivo per fissare l'orlo dei pantaloni alle scarpe da ginnastica. Lo sospettavamo: le vere avventure dei reality show sono quelle di chi lavora per mostrare le finte e demenziali prodezze dei concorrenti. Per 4 mila dollari al mese si può fare, una cifra da leccarsi i baffi in un settore dove il lavoro è per statuto a tempo, intermittente, precario.Un capannone di San Giusto Canavese è il teatro di posa di Cento vetrine, soap opera in onda su Canale 5 da ben sei anni. Duecento persone timbrano il cartellino, tutti contratti a tempo determinato, rinnovati ogni sei mesi, un decoratore di scenografia guadagna 1600 euro al mese. Ma i mesi pieni, senza fermi di produzione, sono rari. A Palermo per quella modica cifra i ragazzini ammazzano su commissione. Dunque, da mesi la vera notizia in città e nel circondario è Agrodolce, nuova fiction della Rai, sicilianitudine senza retorica e fuori dagli stereotipi, garantisce Gianni Minoli, direttore di Rai Educational. 230 puntate di 30 minuti, di cui 6 girati in esterni - «in Sicilia c'è una luce che a Hollywood se la sognano» (sempre Minoli dixit)- il resto negli studios che l'architetto Massimiliano Fuksas sta ricavando da una fabbrica dismessa di Termini Imerese. C'è il cofinanziamento della Regione Sicilia e l'obbligo ad assumere solo siciliani doc, dagli attori protagonisti all'ultimo manovale. Assunzioni a tempo determinato, s'intende. In Sicilia si sgomita per molto meno. Racconta Angela Biondi, segretaria della Slc-Cgil di Palermo: «Quando si è sparsa la notizia, siamo stati invasi da giovani che volevano mettersi in lista per Agrodolce. Hanno riempito persino il terrazzo. Continuiamo a ricevere telefonate: io so fare la parrucchiera, io la truccatrice, io pure la comparsa farei». Roma, quartiere Palatino, auto posteggiate nei pressi della redazione del Tg5. All'interno, giovani che ci dormono anche la notte. Tengono la telecamera appoggiata sulle ginocchia. Aspettano la «chiamata», pronti a schizzare se c'è da uscire con il redattore per «fare il servizio». Sarebbero free lance, «ma ci chiamano così solo per indorare la pillola». In effetti, non c'è molta differenza con la piazza dove il caporale «chiama» gli edili o i raccoglitori di pomodori. Rai, Corso Sempione, Milano. Piccola storia di un precario che prima stava ancora peggio. Fase uno: cooperativa di facchinaggio, «smagnetizzavo cassette per la Rai», in nero. Fase due: lavoro in regola, in una ditta esterna che fa cablaggio elettronico per la Rai. Fase tre: diploma di elettrotecnico-impiantista, assunto a tempo determinato dalla Rai come «specializzato», 1200 euro al mese «facendo i notturni». Riassumendo: «Ho sempre lavorato per la Rai, ma sono stato assunto td (abbreviazione del lessico Rai, ndr) solo dopo 4 anni. Sono relativamente contento. La mia impressione è che in Rai metà della gente sia td».Metà è un'esagerazione, se si considerano tutti i 12 mila dipendenti della Rai. Non lo è, se ci riferisce ai programmisti-registi. Pare siano 1200, forse 2000, quelli a tempo determinato. Sono in gran parte donne, parecchie hanno superato la quarantina, e fanno di tutto. «Dal portare il caffè al capo al realizzare vere e proprie inchieste». Durata massima del contratto, otto mesi e mezzo. Via uno sotto l'altro, fino all'età della pensione. Anche qui torna la solita cifra: 900 euro al mese che diventano 1200 grazie agli straordinari. «Si resiste solo perché fare la televisione è meglio che guardarla», dice una. E un'altra: «E' pur sempre un lavoro creativo». Cosa manca? «Più che la sicurezza, manca la valutazione del lavoro che fai. Entri al quarto livello e lì resti a vita. Non va bene il lavoro che faccio? Preferirei mi cacciassero, invece mi tengono qui nella melma». Per uscire dalla melma ci sono solo due modi. O una bella causa di lavoro, che la Rai perde inesorabilmente (200 le cause pendenti, 40 i milioni di euro che l'azienda stanzia annualmente per le spese legali). O la lotteria dei «bacini di reperimento». Dentro ci stanno i td con più anzianità di servizio che l'azienda, con un accordo sindacale, si è impegnata a trasformare in dipendenti fissi. Finora mamma Rai con una mano ne ha «assorbiti» un centinaio, mentre con l'altra ha riaperto il rubinetto della precarietà con raffiche di cocopro e «collaboratori» vari. Trattati peggio dei td, stanno scoprendo pure loro la strada del tribunale. Endemol, Magnolia, Grundy, Fascino sono case di produzione che realizzano e vendono format chiavi in mano alle emittenti televisive. Prendiamo ad esempio, ma il discorso vale per tutte, Fascino che, essendo di proprietà della coppia Costanzo-De Filippi, ci evita di ricordare cosa produce. Come lo produce? Moltiplicando a cascata le esternalizzazioni e, quindi, la precarietà. Fascino, in sostanza, affitta a tempo determinato impianti, tecnologie, automezzi, personale. Forniti dai «service» (Sbp, Palomar, Etabeta, Frame, Video3, Euroscena sono quelli che vanno per la maggiore) che, a loro volta, hanno una manciata di dipendenti fissi e un'agenda di nomi e numeri di telefono alta una spanna. Il contratto tra Fascino e service dura quanto il ciclo del format (in genere 9 mesi). Ma il personale assoldato dai service è costretto ad accettare contratti di pochi giorni, firmati molto dopo l'avvenuta prestazione, sempre rinnovati. Un cameraman di un service: «Alla fine del mese mi ritrovo tante buste e pochi soldi. 100 euro per ogni giorno lavorato. Sono quattro anni che non posso ammalarmi. Sono telecineoperatore, nei fogli che mi fanno firmare risulto impiegato tecnico di terzo livello. Fanno figurare che lavoriamo come troupe d'emergenza, chiamata a dar manforte a quella fissa, che saremmo sempre noi. Siamo i braccianti del terzo millennio». Questa carrellata sulla precariatà dell'indotto televisivo non rivela segreti, non scopre altarini. Eppure, nessuno degli otto lavoratori intervistati ha accettato di metterci il suo nome. E' questa la vera notizia. La precarietà cancella i diritti, persino quello ad avere un'identità. Enrico Cremagnani è la classica eccezione che conferma la regola. Guarda caso, è un precario di lusso e per scelta. Milanese, trent'anni, partita Iva, gira, monta e confeziona servizi per All Music, televisione tematica del gruppo L'Espresso. Possiede i suoi mezzi di produzione (Marx evergreen!), videocamera e computer, «basta applicargli un programmino e si possono montare suoni e immagini». Ha una scrivania in redazione, preferisce lavorare «da casa». Guadagna 2.750 euro netti al mese, può permettersene due di ferie. «Prendo più dei miei capi e la ragione è semplice. Faccio risparmiare a All Music un sacco di soldi». Ore di lavoro? «Variabili, più una cosa mi piace più le dedico tempo». Insomma, un pascià. «Sì, sono un privilegiato, devo vergognarmi?».Il numero dei privilegiati, già esiguo, è destinato ad assottigliarsi. Il mercato televisivo è saturo, dice Nicola Zappa, delegato della Cub a Telelombardia, assunto a tempo indeterminato come mixer video-regista dopo anni da free lance. «Negli anni ottanta un operatore con una giornata di riprese alle sfilate di moda si faceva le sue belle 700 mila lire. Ora rimedia 200 euro». Senza i precari, pagati 50 euro a giornata, metà del palinsesto di Telelombardia salterebbe. Purtroppo, chi è assunto «guarda al suo, se ne fotte dei precari». Alla Rai di Milano, racconta Giusi Corbelli, delegata della Slc-Cgil, «non abbiamo più costumiste interne. Solo in paio di sarte, giusto per tirar su un orlo o stringere con gli spilli un vestito». Anche Giusi torna, a rovescio, sul diritto al nome. «Solo chi è assunto fisso può permettersi il lusso di togliere il suo nome dai titoli di coda da trasmissioni imbarazzanti e offensive». Quelle tutte tette e culi? «Ecco, proprio quelle lì». Precarizza di più la Rai o Mediaset? «Se si guarda ai dipendenti interni bisogna riconoscere che, in proporzione ai suoi 3.500 addetti, ci sono meno precari a Mediaset», risponde Marco Del Cimmuto, segretario nazionale della Slc. E non è tutto: in Rai sta «drammaticamente» crescendo la quota di produzione appaltata all'esterno che moltiplica e disloca altrove la precarietà.


-->

martedì 27 novembre 2007

La precarietà secondo me, dal di dentro...

La trasmissione Report (Raitre, domenica 25 novembre 2007) ha dedicato un ampio servizio ai precari della Sanità pubblica. Chi l'ha potuto seguire si sarà reso conto di come (la sintesi, in un post, è d'obbligo, chi vuole saperne di più potrà visualizzare testo e filmato dal sito di Report) molti infermieri che prestano servizi negli ospedali del Lazio siano stati assunti, e vengano anche retribuiti, come addetti alle pulizie, mentre invece le cooperative per le quali lavorano ricevono compensi a livello di infermieri professionali qualificati. Tutto quanto raccontato dai colleghi è interessante, ma rimane un ragionamento da fare: non esistono solo gli esternalizzati che lavorano negli ospedali. L'Ente radiotelevisivo di Stato, in casa propria, si comporta né più né meno che gli ospedali di cui sopra. Vogliamo, cari amici, avere il coraggio di raccontare (anche perché molti di voi stanno in queste condizioni) come lavorano i precari della RAI (e delle tv commerciali)? Alcuni spunti di discussione: 1)La questione dei dipendenti assunti a tempo determinato (TD), con contratti di durata variabile da tre settimane a nove mesi, con uno stop obbligatorio tra un contratto e l'altro onde evitare di far lavorare una persona dodici mesi di fila. 2) La paga dei TD è bassissima, appiattita e non tiene assolutamente conto delle capacità professionali, anche esterne all'Azienda, di ciascun dipendente, per cui un montatore RVM con un'esperienza di trent'anni viene pagato esattamente quanto un collega di vent'anni al suo primo impiego. 3) Se in RAI non hanno ancora avuto la faccia tosta di far lavorare diffusamente nei vari centri di produzione personale precario assunto da cooperative, di fatto una grande percentuale di lavori, specialmente per quanto riguarda la postproduzione, viene appaltata all'esterno. Se cambia la forma, la sostanza rimane identica. Le società che lavorano in appalto, normalmente, pagano ancora meno della RAI i lavoratori che, spesso, sono gli stessi precari che vi si appoggiano tra un contratto e l'altro... Anche perché, se la RAI li fa lavorare per nove mesi, le bollette, affitti o rate di mutuo e spesa per far mangiare e vestire se stessi e la famiglia, guarda un po', incidono sul loro bilancio per dodici mesi l'anno.4) La spirale perversa precariato/cause di lavoro, per cui, dopo qualche anno di questa vita, i TD fanno causa all'Azienda per venire assunti a tempo indeterminato. Normalmente, la RAI perde e paga le spese legali. Si calcola che 80 milioni di euro all'anno se ne vadano via in questo modo. Quanto basterebbe per garantire un ottimo stipendio e regolarità retributiva/contributiva a un migliaio di persone.

Essere precari a 50 anni

Salve, questa è la mia storia.

Maggio 1975. Ho iniziato a lavorare in televisione a 18 anni, mancavano poche settimane all'esame di maturità e avevo già scelto che quello della tv, e in generale dei media sarebbe stato il mio campo lavorativo.

Una decisione presa in seguito all'attrazione esercitata su di me da tutto quanto faceva libertà d'espressione e trasmissione attraverso le onde hertziane.

Adolescente, ero un CB, ovvero quegli appassionati di radio che, a differenza dei radioamatori patentati (gli OM e gli IW), impiegavano in assoluta illegalità la frequenza dei 27 MHz per chiacchierare, ma anche per svolgere servizi di utilità sociale come la difesa antincendi, la ricerca di donatori di sangue e via dicendo. Dalla lotta per fare legalizzare la "Banda 27" alla decisione di impegnarmi, collaborando con le nascenti radio-tv libere, nella battaglia per sconfiggere il monopolio RAI, il passo fu breve. Certo, in quell'epoca, mai e poi mai mi sarei immaginato di ritrovarmi, adesso, con in tasca il tesserino magnetico color blu di dipendente TD della Radiotelevisione Italiana...

Nel mezzo, in tutti questi anni, ne ho combinate un bel po'. Ho visto nascere, anzi, ho fatto nascere tv e radio locali, poi a metà degli anni Ottanta ho iniziato a lavorare (a tempo indeterminato, quelli erano bei tempi) in una società che lavorava in appalto per la Rai e per le reti private. A quell'epoca Canale 5 era di Berlusconi, Italia 1 di Rusconi e Rete 4 di Mondadori. Sapete com'è andata a finire. Poi ho dovuto cambiare lavoro, il settore degli appalti è stato rivoluzionato dalla nascita dei sistemi digitali che, specialmente per il montaggio e la grafica, hanno fatto passi da gigante. Avevo trascorso dieci anni, in quell'appalto. Altri dieci li ho passati in un network satellitare straniero, dal quale sono scappato nel 2004, Da allora, contratti con la Rai e con Videotime, La7, Sky, Fox e prestazioni occasionali presso appalti vari. Potrei definirmi un freelance, se non fosse che in Italia questa parola, troppo spesso, diventa sinonimo di precario...